LA PRIMAVERA DI SANGUE

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Lo stato d’Israele, già teatro di difficilissime convivenze e condivisioni a sfondo religioso, ha registrato da settimane un progressivo peggioramento sia delle tensioni dovute al conflitto israelo-palestinese, con vari attacchi di stampo terroristico e risposte violente da parte della polizia israeliana, sia della fragilità del governo Bennett che si teme possa accusare un duro colpo, se non addirittura cadere nel prossimo futuro.

A partire da fine marzo il Paese ha subito atti di violenza con insolita frequenza: il 22 marzo un uomo ha ucciso a coltellate un ciclista e tre clienti di un centro commerciale a Beersheva, il 27 marzo sono stati uccisi due poliziotti israeliani ad Hadera (entrambi gli attacchi sono poi stati rivendicati dallo Stato Islamico), il 29 marzo cinque persone sono decedute in seguito ad una sparatoria nella città di Bnei Brak ed infine il 7 aprile due persone sono morte in una via del centro di Tel-Aviv per mano di un uomo palestinese  proveniente dalla Cisgiordania. (negli ultimi due attacchi la polizia è riuscita a fermare gli aggressori uccidendoli)

Con un bilancio di morti così pesante in appena due settimane (il più alto negli ultimi 7 anni) ed un clima di maggiore insicurezza dell’opinione pubblica spaventata da questo improvviso scatenarsi di violenza, il dibattito politico si è ovviamente acceso. All’interno del paese in molti hanno criticato le agenzie di intelligence israeliane in quanto tre delle persone che hanno compiuto gli attacchi erano già note ai servizi segreti e già da fine marzo il Primo Ministro Bennett aveva invitato coloro che avessero posseduto un’arma a portarla con se “in vista di possibili violenze”.

Al netto di ciò che si può pensare di un Primo Ministro che inviti i propri cittadini a girare armati, è giusto domandarsi: perché “in vista di possibili violenze” ? La risposta è certamente da ricercarsi nell’accavallamento delle festività religiose; come non succedeva infatti dal ’91 si sono sovrapposte tre festività importanti sia per il Cristianesimo (Pasqua e periodo di Quaresima) ed Ebraismo ( la Pasqua ebraica chiamata Pèsach) sia per l’Islam (il Ramadan che quest’anno dura tutto aprile). La concomitanza di questi eventi ha avuto un peso notevole sulla città di Gerusalemme, sacra e con grande valore simbolico per le tre le religioni monoteiste, portando ad un intensificarsi delle tensioni che sono poi sfociate in violenze.

Da venerdì 15 u.s. gli scontri si sono moltiplicati dando origine a episodi anche molto gravi che, come consuetudine, se fossero accaduti altrove nel mondo occidentale avrebbero fatto molta più notizia. Il New York Times ha riportato che la polizia israeliana è entrata nel complesso della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme (il terzo luogo più sacro per i musulmani dopo La Mecca e Medina) dove molti palestinesi si trovavano in quel momento per la preghiera del venerdì dando così inizio agli scontri.

Stando ad Israele si sarebbe trattato di una reazione ad un lancio di pietre nei confronti dei poliziotti (seppur vero che la reazione delle forze armate tramite lancio di lacrimogeni non sembra commisurata all’aggressione) e per quanto fortunatamente non ci siano state vittime, sembra che circa 150 palestinesi e qualche ufficiale israeliano siano rimasti feriti, mentre gli arrestati ammonterebbero a 400 persone, una cifra spropositata.

Per continuare la mattina di Pasqua le forze israeliane hanno bloccato alcuni musulmani che si stavano recando presso il complesso della stessa moschea durante una visita programmata da parte di religiosi ebraici e turisti stranieri, i quali possono visitarla soltanto alcuni giorni della settimana come proprio la domenica. Questo “blocco” da parte israeliana ha innescato la reazione palestinese, che si è vista impedire l’ingresso in un importante luogo di preghiera, dando vita a scontri nell’area antistante la moschea con almeno altri 17 palestinesi feriti e 18 arrestati.

La situazione alterata sta mettendo in crisi la stabilità del governo di Naftali Bennett, che ha sostituito come Primo Ministro l’ex Premier Benjamin Netanyahu grazie all’appoggio delle opposizioni le quali, coalizzandosi, hanno voluto impedire la quinta rielezione di Netanyahu. Il governo di Bennett è quindi fondato più su questo sentimento anti-Netanyahu che su una solida maggioranza, composta da 8 partiti di ogni schieramento politico e, per la prima volta nella storia, anche un partito indipendente arabo.

Questo partito arabo chiamato Ra’am, che dopo i fatti del weekend minaccia di slegarsi dalla maggioranza, ha deciso di sospendere la propria partecipazione alla coalizione in attesa di proprie determinazioni definitive; la chiusura della moschea ai fedeli di domenica però è stata intesa come ulteriore elemento di instabilità.

La fortuna politica del governo Bennett è determinata dalla pausa che il parlamento Israeliano terrà fino all’8 maggio, periodo che conferisce tempo sufficiente affinché i leader dei partiti possano cercare di negoziare ed evitare che Ra’am sia costretta allo strappo, di fatto mettendo a serio rischio la tenuta del governo che senza il partito arabo non potrebbe sopravvivere.

Ciononostante sarebbe sbagliato pensare che i problemi di Bennett siano iniziati lo scorso weekend poiché già ad inizio aprile Idit Silman, deputata facente parte dello schieramento Yamina (orientato a destra), aveva lasciato il partito per divergenze con il resto della coalizione a causa del divieto di portare pane azzimo negli ospedali durante il periodo pasquale; nel fare questo però ha portato il bilancio tra maggioranza e opposizione alla parità assoluta, è comprensibile quindi che la decisione del partito Ra’am infonda una certa preoccupazione per la sopravvivenza del governo, in aggiunta all’escalation degli scontri con le forze palestinesi.

La questione è interessante per la narrazione sbagliata che si fa di Israele, come se fosse non un paese, ma un blocco monolitico che agisce in maniera unidirezionale, mentre come tutti i paesi democratici è attraversato da forze molto diverse ed equilibri precari, ma anche perché (come già accennato prima) le violenze nel paese vanno avanti da così tanto tempo da non suscitare più nessuna indignazione nella nostra opinione pubblica, non lo fanno gli attacchi terroristici, non lo fa il Premier Israeliano quando invita la gente a girare armata e non lo fanno neanche i moltissimi video di soprusi che caratterizzano spesso l’operato delle forze dell’ordine israeliane. Pur essendo vissuto come un paese all’interno della bolla occidentale, non così distante dagli Stati europei, luoghi nei quali però se i rispettivi leader dovessero invitare la popolazione a girare armata o se venissero compiuti 400 arresti in una sera la reazione dell’opinione pubblica risulterebbe ben diversa.

Ninì Romanazzi

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