Un giovane professore del sud emigrato al nord per lavorare ma…

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Intervista
a un ragazzo del sud costretto ad emigrare al nord per mancanza di lavoro e lo
stato ci mette del suo per amplificare il suo disagio lavorativo.

Un
ragazzo, un precario, un docente con contratto a tempo determinato, che si è
ben integrato nel tessuto nordico ma grazie all’ultimo contestatissimo concorso
per docenti di scuola secondaria, concorso che ha sollevato molte proteste
contro il MIUR, per i numerosissimi errori e sul modo di svolgimento del
concorso stesso, vede il suo futuro lavorativo piuttosto nero.

Ascoltiamo
quindi il Prof. Antonio Moliterni, docente di Matematica al Bolisani di Isola
della Scala (Verona) e scrittore di molti libri di narrativa per tutte le età.

Sig.
Moliterni, ci parli di lei e del suo enorme piacere nell’insegnare la
matematica ai suoi alunni e del suo piacere di scrivere libri di narrativa?

Salve,
innanzitutto la ringrazio per avermi voluto intervistare. Rispondo prima alla
seconda domanda: la volontà di scrivere libri di narrativa è nata da una
situazione un po’ particolare. Io soffro di una malattia rara degenerativa, la
CIPO, della quale non esistono cure e con la quale sono costretto a convivere e
a fare i conti tutti i giorni.

Anni
fa, in uno dei periodo più bui della mia convivenza con la CIPO, dopo essere
entrato in un tunnel di forte depressione che mi aveva spinto ad abbandonare a
fare qualsiasi cosa, compreso suonare la chitarra, iniziai per gioco a scrivere
e vidi che la cosa mi piaceva. Da qui, essendo dotato di una fantasia niente
male dato che per molti anni ho fatto parte del gruppo scout AGESCI Gravina 1
(all’interno del quale mettevo a disposizione tutto il mio estro creativo),
iniziai quella che fu la stesura del mio primo romanzo, Wolf’s Eyes, che vide
la luce nel 2011; poi ci presi gusto e ne scrissi altri, molti dei quali inediti
e che faccio leggere a chi ha piacere e voglia di leggere.

Per
quanto riguarda la prima domanda, beh, diciamo che chi mi conosce crede
ingenuamente che io abbia una passione smodata per la letteratura. In realtà
non è proprio così, poiché essendo laureato in Economia e Commercio ho
cominciato a nutrire un forte amore verso la statistica e la matematica,
mettendo da parte quella che fu la mia passione iniziale (l’economia
aziendale).

Mi
pento, infatti, di essermi laureato in economia: a oggi credo che la mia vera
vocazione sarebbe stata una facoltà tra fisica, matematica o scienze
statistiche.

Insegnare
mi permette di fare un po’ quello che facevo quando ero parte degli scout:
essere a contatto coi ragazzi e coi più giovani, mettendomi a loro
disposizione. Credo che il mestiere di insegnante sia tra i più belli e
appaganti al mondo, anche se economicamente ancora troppo bistrattato. È un po’
come fare lo scout, ma con lo stipendio.

È
un lavoro che svolgo anche gratuitamente quando alcuni studenti mi chiedono una
mano. Non ho mai lavorato esclusivamente per soldi, un po’ come Patch Adams
svolgeva la professione di medico.

Tra
lo scoutismo e l’insegnamento esistono un’infinità di analogie: i metodi sono
molto affini. Insegno applicando quasi alla lettera il metodo scout: imparare
divertendosi e giocando, così i ragazzi studiano divertendosi e non
annoiandosi.

(chiedo
scusa per la lunghezza, ma era impossibile essere celeri)

Quali
problemi sta incontrando, se ne sta incontrando, insegnando in una terra che
non è la sua?

Venire
in Veneto non è stato facilissimo. Innanzitutto ho dovuto spostarmi nell’arco
di 24 ore: mercoledì alle 9 di mattina ero a Gravina, giovedì alle 6 di mattina
ero a Verona e non sapevo neppure dove avrei pernottato. Nell’arco di mezza
giornata ho trovato un appartamento in cui stare (una stanza, in realtà); poi
ho cominciato a lavorare nella mia scuola, l’Istituto di Istruzione Superiore
“Ettore Bolisani” di Isola della Scala (sede di Villafranca di Verona).

Quando
sono approdato in Veneto mi sono portato dietro innumerevoli pregiudizi, molti
(probabilmente tutti) dei quali infondati, i quali facevano leva su un presunto
razzismo nei confronti di noi gente del sud. Invero, i miei colleghi (tutti,
nessuno escluso), partendo dalla Vicepreside, si sono dimostrati comprensivi e
disponibilissimi nei miei confronti, aiutandomi quando ero in difficoltà. Il
Bolisani, a oggi, è la mia seconda famiglia, anche se sono conscio del fatto
che, prima o poi, sarò costretto a lasciarlo a causa della mia condizione da
precario.

Mi
permetto di chiamarti Antonio e darti del tu, in merito al recente concorso per
l’insegnamento quali problemi hai incontrato?

Il
nuovo concorso è andato a stravolgere quella che era la modalità del precedente
metodo di reclutamento, secondo il quale si davano da svolgere delle tracce ai
candidati i quali, poi, dovevano sviluppare un tema, mettendo in risalto, oltre
alla conoscenza della materia, anche quella inerente al metodo, alla pedagogia
e alla psicologia della didattica. Così facendo, però, si lasciava alla
discrezione della commissione giudicante un’enorme soggettività nella
valutazione.

Il
nuovo metodo di reclutamento, invece, prevede la risoluzione di 50 quesiti a
risposta multipla, di cui 40 inerenti alla materia, 5 di inglese e 5 di
informatica. Il problema è che chi ha posto in essere la procedura concorsuale
ha vietato categoricamente l’utilizzo, da parte dei candidati, di strumenti
come carta e penna per svolgere i calcoli. Personalmente ritengo un’enorme
ingiustizia una cosa simile: non si può ridurre la capacità di problem solving
come qualcosa di oggettivo: ognuno ha il proprio metodo di risoluzione dei
problemi.

Risolvere
sistemi parametrici, individuare nelle coordinate dei punti nel piano le
formule di bisezione degli archi di coseno e seno camuffate in forma
parametrica, sviluppare serie di Taylor, derivare con Hȏpital cinque volte una
funzione, tutto a mente, diventa estenuante se lo si fa su 40 quesiti, un paio
dei quali teorici e quasi tutti su argomenti che in un istituto tecnico (ma
anche in uno scientifico) non faresti.

Questo
dimostra l’incapacità, di chi ha posto in essere il concorso e le domande, di
conoscere davvero cosa viene trattato a scuola: posso capire che se si è
insegnanti si debba avere una conoscenza a 360 gradi della materia, ma
incentrare quasi esclusivamente un concorso su argomenti che in un Istituto
Tecnico non faresti o, al più, accenneresti, mi è sembrata una presa in giro.
Poi, per carità, magari con carta e penna sarebbe stato tutto più fattibile
(anche se non voglio essere ipocrita al punto da dire che con quegli strumenti
compensativi avrei sicuramente superato il concorso, anzi), ma assistere a
candidati – molti dei quali già insegnanti – che svolgevano i calcoli sulla
mano o sulle braccia è stato avvilente e mortificante per la nostra
professione, dimostrando un assoluto disinteresse nei nostri confronti.

Tuttavia,
alla luce di questa esperienza ritengo di dover migliorare: voglio studiare
ancora, voglio imparare, ho sete di conoscenza. Se c’è una cosa che questo
concorso mi ha lasciato è la voglia di mettermi in gioco e studiare.

Secondo
te, Antonio, questo concorso e il relativo prossimo è da rifare e perché?

Il
concorso è sicuramente da rifare, ma non in questa modalità. Una crocetta messa
al posto giusto (tenendo conto che molte risposte traevano in inganno), non può
dare una valutazione oggettiva delle capacità di un insegnante che non sono
solo quelle di conoscere la materia ma, soprattutto, quelle di saperla
trasmettere.

Si
può essere ottimi cultori della materia ma pessimi insegnanti (sotto il profilo
pedagogico-didattico): secondo me è questo che il MIUR dovrebbe valutare,
anziché escogitare ogni anno come renderci impossibile la scalata alla
conquista della nostra professione.

Prof.
Antonio, hai ricevuto comunque tanti segni di stima dai tuoi alunni e dal tuo
Dirigente, nonché dai tuoi colleghi? Pensi di rimanere al Bolisani, oppure
pensi di tornare ad insegnare nella tua terra natia?

Se
dovessi risponderti dando retta al cuore, ti direi senza pensarci che resterei
qui tutta la vita. Mi sono completamente integrato, ho un ottimo rapporto coi
miei colleghi, i miei studenti e, in generale, gli studenti della scuola mi
adorano e io amo loro. È un po’ come fossero tutti miei figli e questo mi
condiziona parecchio nella mia scelta: non riuscirei ad abbandonare tutti, mi
piacerebbe portare le seconde dello scorso anno in quinta e vederli diplomare,
ripetendo questo iter ogni anno. Ma so già che è impossibile: sono un precario,
un docente con contratto a tempo determinato.

A
settembre non so già se sarò ancora qui, in provincia di Verona, se lavorerò né
dove lavorerò. Anzi, con l’ombra del nuovo concorso straordinario al quale,
ahimè, non posso partecipare, poiché non in servizio da almeno tre anni, temo
che la mia avventura rischi di concludersi a giugno.

Certo,
tornare qui in Puglia, magari insegnare non dico nel mio paese ma in un paese
limitrofo, non sarebbe male. Ma al momento non me la sento di abbandonare i
miei alunni.

Al
momento, l’unica certezza è che ho molto da imparare come insegnante. Insegno
da soli due anni, troppo poco per poter dire di conoscere questo lavoro e
troppo poco da ritenermi un buon insegnante. Credo di essere ancora molto
lontano da qualcosa che somigli a un discreto insegnante.

Ha
ancora senso organizzare concorsi del genere in un periodo storico come il
nostro pieno di problematiche e di contraddizioni politiche?

Ti
risponderei di nì. Sicuramente occorre un metodo di reclutamento, ma non come
l’attuale.

In
alcuni Paesi all’estero il reclutamento avviene presentandosi dal Dirigente,
mostrando il proprio curriculum e svolgendo un anno di prova: poi si è assunti.
Qui prima ti bocciano in sede di concorso ordinario, poi promuovono tutti in
sede di concorso straordinario (visto che hanno deciso di promuovere tutti). Mi
chiedo il senso di tutto ciò.

Un
insegnante è un essere umano: se non è dotato di amore e empatia, difficilmente
potrà essere un buon insegnante. Siamo chiamati a educare e a essere coinvolti
nelle sfere personali delle vite dei nostri studenti, i quali costituiscono
tanti micro mondi ai quali noi ci affacciamo e verso i quali siamo chiamati a
interagire.

Stando
dall’altra parte della cattedra vedi e conosci molte cose che quando eri seduto
tra i banchi ignoravi. I ragazzi di oggi vivono in un’altra realtà,
completamente diversa da quella della mia generazione, a sua volta diversa da
quella di mio padre o dei miei zii. Non si può liquidare tutto con “ai miei
tempi”, perché questi sono i tempi attuali. Una cosa che, probabilmente, sfugge
a chi ci governa.


Concludendo: Non basta che si è costretti ad abbandonare la terra natia per
poter lavorare, questa nazione matrigna ti costringe pure a ritornare con le
pive nel sacco perché un burocrate ha organizzato un concorso in modo fallace,
approfittando delle condizioni di selezione e assunzione che favoriscono solo
“poche persone” a danno di molti.

 Il Nostro Antonio ma non solo lui ,
tutti quelli come lui adesso vivono nel timore di non poter più lavorare e meno
male che l’articolo uno  della
costituzione italiana dice che :
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Ecc ecc. ma
sul lavoro di chi? E per chi? Se questo stato non trova il modo di far lavorare
i suoi cittadini allora ha tradito la sua stessa costituzione, quindi è ora che
si cambi, che si rinnovi per il bene di tutti e di tutta la brava gente del sud
che è costretta ad emigrare per trovare lavoro, dato che la burocrazia italiana
rende fallace pure la sua stessa costituzione.

ROCCO MICHELE RENNA

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